La nostra storia del pensiero ellenistico e romano, come storia della philosophia antica, si sforzerà meno di studiare le diversità e le particolarità dottrinali proprie di queste diverse scuole, che di cercare di descrivere l'essenza stessa del fenomeno della philosophia, e di enucleare le caratteristiche comuni del «filosofo» o del «filosofare» nell'antichità. Si tratta di riconoscere in certo qual modo la stranezza di questo fenomeno, al fine di cercare di meglio comprendere, in seguito, la stranezza della sua permanenza in tutta la storia del pensiero occidentale. Perché ‑ si dirà ‑ parlare di stranezza, quando si tratta di una cosa molto generale e molto comune? Tutto il pensiero ellenistico e romano non è forse tinto di un colore filosofico? La generalizzazione, la divulgazione della filosofia non è forse una delle caratteristiche dell'epoca? La filosofia è presente dappertutto, nei discorsi, nei romanzi, nella poesia, nella scienza, nell'arte. Tuttavia non ci si deve ingannare. C'è un abisso fra quelle idee generali, quei luoghi comuni che possono adornare uno svolgimento letterario, e il «filosofare» autentico. Infatti quest'ultimo implica una rottura con quello che gli scettici chiamavano bìos vale a dire la vita quotidiana, allorché rimproveravano precisamente gli altri filosofi di non seguire la condotta di vita comune, la maniera abituale di vedere e di agire, che consisteva, per gli scettici, nel rispetto dei costumi e delle leggi, nella pratica delle tecniche artistiche o economiche, nella soddisfazione dei bisogni del corpo, nella credenza nelle apparenze che è indispensabile per agire. è vero che, cosí facendo, con la scelta di tale conformità al modo comune di vivere, gli scettici restavano essi stessi dei filosofi, poiché praticavano un esercizio tutto sommato abbastanza strano, la sospensione del giudizio, e miravano a uno scopo, la tranquillità ininterrotta e la serenità dell'anima, che la condotta di vita comune quasi non conosceva.
Precisamente questa rottura del filosofo con le condotte della vita quotidiana è fortemente sentita dai non‑filosofi. Presso gli autori comici o satirici, i filosofi appaiono come personaggi bizzarri, se non pericolosi. E d'altra parte vero che, in tutta l'antichità, il numero dei ciarlatani che si presentavano come filosofi dovette essere notevole; e Luciano, per esempio, eserciterà volentieri la sua verve a loro spese. Ma anche i giuristi considerano i filosofi come gente a parte. Nei litigi dei professori coi loro debitori, le autorità, secondo Ulpiano, non devono occuparsi dei filosofi, poiché questi ultimi professano essi stessi il disprezzo del denaro. Una regolamentazione dell'imperatore Antonino Pio relativa ai salari e alle indennità osserva che, se i filosofi litigano per le loro proprietà, mostrano di non essere filosofi. I filosofi sono dunque gente a parte, e strana. Strani sono, in effetti, quegli epicurei che conducono una vita frugale praticando, nella loro cerchia filosofica, un'uguaglianza totale fra gli uomini e le donne, e persino fra le donne sposate e le cortigiane; strani quegli stoici romani che amministrano in maniera disinteressata le province dell'Impero loro affidate, e che sono i soli a prendere sul serio le prescrizioni delle leggi emanate contro il lusso; strano quel platonico romano, il senatore Rogaziano, discepolo di Plotino, che, lo stesso giorno in cui deve assumere le sue funzioni di pretore, rinuncia alle sue cariche, abbandona tutti i suoi beni, emancipa i suoi schiavi, e non mangia piú che un giorno su due. Strani dunque tutti quei filosofi il cui comportamento, senza essere ispirato dalla religione, tuttavia rompe interamente con i costumi e le abitudini dei comuni mortali.
Già il Socrate dei dialoghi platonici era detto àtopos ossia «inclassificabile». Ciò che lo rende àtopos è precisamente il fatto di essere «filo‑sofo» nel senso etimologico della parola, ossia di amare la sophìa, la sapienza. Poiché la sapienza, dice Diotima nel Convito di Platone, non è uno stato umano, è uno stato di perfezione nell'essere e nella conoscenza che può essere soltanto divino. E' l'amore di questa sapienza estranea al mondo a rendere il filosofo estraneo al mondo.
Ogni scuola dunque elaborerà la sua rappresentazione razionale di questo stato di perfezione che dovrebbe essere quello del sapiente e del saggio, e si impegnerà a tracciarne il ritratto. è vero che questo ideale trascendente sarà considerato quasi inaccessibile: secondo certe scuole forse non c'è mai stato un saggio; secondo altre ce n’è stato uno, o due, come Epicuro, quel dio fra gli uomini; infine secondo altre l'uomo può raggiungere questo stato solo in attimi rari e folgoranti. In questa norma trascendente posta dalla ragione ogni scuola esprimerà la sua visione particolare del mondo, lo stile di vita suo proprio, la sua idea dell'uomo perfetto. è perciò che la descrizione di questa norma trascendente, in ogni scuola, verrà infine a coincidere con l'idea razionale di Dio. Michelet lo ha detto con una frase molto profonda: «La religione greca finisce col suo vero dio: il saggio». Si può interpretare questa formula, che Michelet non sviluppa, dicendo che la Grecia supera la rappresentazione mitica che aveva delle sue divinità, nel momento in cui i filosofi concepiscono in modo razionale Dio secondo il modello del saggio. E vero che in queste descrizioni classiche del saggio certe circostanze della vita umana saranno rievocate, ci si compiacerà di dire che cosa farebbe il saggio in una certa situazione, ma, precisamente, la beatitudine incrollabile, imperturbabile che conserverà in qualsiasi difficoltà sarà quella di Dio stesso. Quale sarà la vita del saggio in solitudine, se è in prigione o in esilio, o gettato su una spiaggia deserta? ‑ si chiede Seneca. E risponde: sarà quella di Zeus (ossia della Ragione universale, per gli stoici), quando, alla fine di ogni periodo cosmico, essendo cessata l'attività della natura, si dedica liberamente ai suoi pensieri; come lui, il saggio godrà della fortuna di essere con se stesso. Il fatto è che, per gli stoici, il pensiero e la volontà del loro saggio coincidono totalmente con il pensiero, la volontà e il divenire della Ragione che è immanente al divenire del Cosmo. Quanto al saggio epicureo, come gli dei vede nascere, a partire dagli atomi, nel vuoto infinito, l'infinità dei mondi; la natura basta a soddisfare i suoi bisogni, e non c'è nulla che possa minimamente turbare la pace della sua anima. Per parte loro i sapienti platonici e aristotelici assurgono ‑ con sfumature diverse ‑ al livello del Pensiero divino, dedicando interamente al pensiero la loro vita.
Ora si capisce meglio 1'atopìa, come il filosofo sia strano ed estraneo nel mondo umano. Non si sa dove classificarlo, poiché non è né un saggio, né un uomo come gli altri. Sa che lo stato normale, lo stato naturale degli uomini, dovrebbe essere la saggezza; poiché essa non è null'altro che la visione delle cose quali sono, la visione del cosmo qual è alla luce della ragione, e non è neanche niente di diverso dal modo di essere e di vivere che dovrebbe corrispondere a tale visione. Ma il filosofo sa anche che tale saggezza è uno stato ideale e quasi inaccessibile. Per un uomo siffatto la vita quotidiana, cosí com'è organizzata e vissuta dagli altri uomini, deve necessariamente apparire come anormale, come uno stato di follia, d'incoscienza, d'ignoranza della realtà. E nondimeno deve pur vivere questa vita di tutti i giorni, in cui si sente estraneo, straniero, e in cui gli altri lo percepiscono come un estraneo. Ed è precisamente in questa vita quotidiana che dovrà cercare di tendere verso quel modo di vita che è totalmente estraneo alla vita quotidiana. Ci sarà cosí un perenne conflitto fra il tentativo compiuto dal filosofo per vedere le cose quali siano dal punto di vista della natura universale, e la visione convenzionale delle cose su cui poggia la società umana, un conflitto tra la vita che bisognerebbe vivere e i costumi e convenzioni della vita quotidiana. Questo conflitto non si potrà mai risolvere interamente. I cinici sceglieranno persino la rottura totale, ricusando il mondo della convenzione sociale. Al contrario altri, come gli scettici, accetteranno pienamente le convenzioni sociali, tutelando la loro pace interna. Altri, come gli epicurei, proveranno a ricreare tra loro una vita quotidiana conforme all'ideale della saggezza. Infine altri, come i platonici e gli stoici, si sforzeranno, a prezzo delle piú gravi difficoltà, di vivere «filosoficamente» la vita quotidiana, e persino la vita pubblica. Per tutti, in ogni caso, la vita filosofica sarà un tentativo per vivere e pensare secondo la norma della saggezza, sarà esattamente una marcia, un progresso, in certo qual modo asintotico, verso questo stato trascendente.
Ogni scuola rappresenterà dunque una forma di vita, specificata da un ideale di saggezza. A ogni scuola corrisponderà cosí un atteggiamento interiore fondamentale: per esempio la tensione per gli stoici, la distensione per gli epicurei; un certo modo di parlare: per esempio una dialettica martellante per gli stoici, una retorica abbondante per gli accademici. Ma, soprattutto in tutte le scuole saranno praticati esercizi destinati ad assicurare il progresso spirituale verso lo stato ideale della saggezza, esercizi della ragione che saranno, per l'anima, analoghi all'allenamento dell'atleta o alle cure di una terapia medica. In termini generali, consistono soprattutto nel controllo di sé e nella meditazione. Il controllo di sé è fondamentalmente attenzione a se stessi: vigilanza tesa nello stoicismo, rinuncia ai desideri superflui nell'epicureismo. Implica sempre uno sforzo di volontà, dunque una fede nella libertà morale, nella possibilità di migliorare, una coscienza morale acuta, affinata dalla pratica dell'esame di coscienza e della guida spirituale e infine dagli esercizi pratici che specialmente Plutarco ha descritto con notevole precisione: controllare la collera, la curiosità, le proprie parole, il proprio amore della ricchezza, cominciando a esercitarsi nelle cose piú facili per acquistare a poco a poco un'abitudine stabile e solida.
Soprattutto, l'«esercizio» della ragione è «meditazione»: d'altronde etimologicamente i due termini sono sinonimi. Diversamente dalle meditazioni di tipo buddistico dell'Estremo oriente, la meditazione filosofica greco‑romana non è legata a un atteggiamento corporeo, ma è un esercizio puramente razionale o immaginativo o intuitivo. Le sue forme sono estremamente varie. In primissimo luogo è memorizzazione e assimilazione dei dogmi fondamentali e delle regole di vita della scuola. Grazie a questo esercizio, la visione del mondo di colui che si sforza di progredire spiritualmente sarà interamente trasformata. Specialmente la meditazione filosofica sui dogmi essenziali della fisica, per esempio la contemplazione epicurea della genesi dei mondi nel vuoto infinito, o la contemplazione stoica dello svolgimento razionale e necessario degli avvenimenti cosmici, potrà ispirare un esercizio dell'immaginazione in cui le cose umane apparranno scarsamente importanti, nell'immensità dello spazio e del tempo. Questi dogmi, queste regole di vita, occorrerà sforzarsi di «averli sottomano», per poter tenere un comportamento filosofico in tutte le circostanze della vita. D'altronde occorrerà immaginare in anticipo tali circostanze, per essere pronti all'urto degli eventi. In tutte le scuole, per ragioni diverse, la filosofia sarà anzitutto una meditazione sulla morte e un'attenzione concentrata sul momento presente, per goderne, o per viverlo in piena coscienza. In tutti questi esercizi, tutti i mezzi procurati dalla dialettica e dalla retorica saranno utilizzati per ottenere la massima efficacia. è segnatamente tale uso cosciente e voluto della retorica che spiega l'impressione di pessimismo che certi lettori credono di scoprire nei Pensieri di Marco Aurelio. Tutte le immagini gli sembrano buone, se possono colpire l'immaginazione e rendere coscienti delle illusioni e delle convenzioni degli uomini.
è nella prospettiva di tali esercizi di meditazione, che occorre comprendere i rapporti fra teoria e pratica nella filosofia di quest'epoca. La teoria di per se stessa non vi è mai considerata come fine a se stessa. O è messa chiaramente e decisamente al servizio della pratica. Epicuro lo dice esplicitamente: lo scopo della scienza della natura è quello di procurare la serenità dell'anima. Oppure, come fanno gli aristotelici, piú che le teorie in se stesse si valorizza l'attività teorica considerata come maniera di vita che procura un piacere e una felicità quasi divini. Oppure, come accade nella scuola accademica, o nella corrente scettica, l'attività teorica è un'attività critica. O ancora ‑ come per i platonici la teoria astratta non è considerata come vera conoscenza: come dice Porfirio, «la contemplazione beatificante non consiste di un'accumulazione di ragionamenti né di una massa di conoscenze apprese, ma occorre che la teoria divenga in noi natura e vita». E, secondo Plotino, non si può conoscere l'anima se non ci si purifica delle proprie passioni per esperire in sé la trascendenza dell'anima rispetto al corpo, e non può conoscere il principio di tutte le cose chi non abbia l'esperienza dell'unione con esso.
Per permettere gli esercizi di meditazione, si mettevano a disposizione dei principianti sentenze o riassunti dei principali dogmi della scuola. Le Lettere di Epícuro che ci ha conservato Diogene Laerzio sono destinate a svolgere questo ruolo. Per assicurare a tali dogmi una grande efficacia spirituale, occorreva presentarli nella forma di formule brevi e icastiche, come le Ratae sententiae, le Massime capitali di Epícuro, o in una forma rigorosamente sistematica, come la Lettera a Erodoto dello stesso autore, che permetteva al discepolo di cogliere con una specie di intuizione unica l'essenziale della dottrina, per averla piú comodamente «sottomano». In questo caso la preoccupazione della coerenza sistematica era messa al servizio dell'efficacia spirituale.
In ogni scuola, non si devono discutere i dogmi e i principi metodologici. Filosofare, in tale epoca, equivale a scegliere una scuola, convertirsi al suo modo di vivere e accettare i suoi dogmi. è perciò che, nella sostanza, i dogmi fondamentali e le regole di vita del platonismo, dell'aristotelismo, dello stoicismo e dell'epicureismo, non sono evoluti durante tutta l'antichità. Persino gli scienziati dell'antichità si collegano sempre a una scuola filosofica: lo sviluppo dei loro teoremi matematici o astronomici non modifica minimamente, per loro, i principi fondamentali della scuola a cui aderiscono.
Ciò non significa che la riflessione e l'elaborazione teorica siano assenti dalla vita filosofica. Tuttavia tale attività non verterà mai sui dogmi stessi o sul principi metodologici, ma sul modo di dimostrazione e di sistematizzazione dei dogmi, e sui punti dottrinali secondari che ne derivano, ma su cui la scuola non è unanime. Questo genere di ricerca è sempre riservata ai «progredienti» per loro un esercizio della ragione che li corrobora nella loro vita filosofica. Per esempio Crisippo si sentiva capace di trovare da solo gli argomenti che giustificassero i dogmi stoici posti da Zenone e Cleante, ciò che d'altronde lo induceva a discordare da loro non già quanto ai dogmi, ma alla maniera di stabilirli. Anche Epicuro riserva ai «progredienti» la discussione e lo studio dei dettagli, dei punti particolari; e, molto piú tardi, lo stesso atteggiamento si ritroverà in Origene, che assegnerà agli «spirituali» il compito di ricercare, come dice egli stesso, in forma di esercizio, i «come» e i «perché», e di discutere questioni oscure e secondarie. Questo sforzo di riflessione teorica potrà approdare alla redazione di vaste opere.
Sono evidentemente questi tratti sistematici o questi dotti commenti ad attirare molto legittimamente l'attenzione dello storico della filosofia: per esempio il trattato sui Principi di Origene, o gli Elementi di teologia di Proclo. Lo studio del movimento del pensiero in questi grandi testi deve essere uno dei compiti principali della riflessione sul fenomeno della filosofia. Tuttavia (occorre pure riconoscerlo) in generale le opere filosofiche dell'antichità greco‑romana rischiano quasi sempre di deviare i lettori contemporanei: e non parlo solo del grande pubblico, ma persino degli specialisti del mondo antico. Si potrebbe comporre un'intera antologia delle accuse rivolte agli autori antichi dai commentatori moderni, che li rimproverano di mal comporre, di contraddirsi, di mancare di rigore e di coerenza. è stato precisamente il mio stupore insieme di fronte a tali critiche e all'universalità e alla costanza del fenomeno che denunciano, a ispirare sia le riflessioni che ho dianzi svolto davanti a voi che quelle che mi propongo di esporre ora.
Mi pare infatti che, per capire le opere dei filosofi dell'antichità, occorra tenere conto di tutte le condizioni concrete in cui questi autori scrivono, di tutte le coazioni a cui sono soggetti: l'ambito e il quadro della scuola, la natura propria della philosophia, i generi letterari, le regole retoriche, gli imperativi dogmatici, i modi tradizionali di ragionamento. Non si può leggere un autore antico come si leggerebbe un autore contemporaneo (il che non significa che la comprensione degli autori contemporanei sia piú facile di quella degli autori antichi). Infatti l'opera antica è prodotta in condizioni affatto diverse da quelle dell'opera moderna. Sorvolo sul problema del supporto materiale volumen o codex ‑, che ha le necessità sue proprie. Ma voglio insistere specialmente sul fatto che le opere scritte, nel periodo che studiamo, non siano mai emancipate del tutto dalle costrizioni legate all'oralità. Infatti è davvero esagerato affermare (come si è fatto ancora recentemente) che la civiltà greco‑romana sia diventata ben presto una civiltà della scrittura, e che sia dunque metodologicamente lecito trattare le opere filosofiche dell'antichità alla stregua di qualsiasi opera scritta.
Infatti le opere scritte di tale epoca restano strettamente legate a comportamenti orali. Sono spesso dettate a uno scrivano. E sono destinate a essere lette ad alta voce, o da uno schiavo che leggerà al suo padrone, o dal lettore stesso, poiché nell'antichità leggere significa abitualmente leggere ad alta voce, sottolineando il ritmo del periodo e la sonorità delle parole, che l'autore ha già potuto saggiare personalmente, allorché dettava la sua opera. Gli antichi erano estremamente sensibili a tali fenomeni sonori. Pochi filosofi, nell'epoca che stiamo studiando hanno resistito a questa magia del «verbo», neanche gli stoici, neanche Plotino. Se, dunque, prima dell'uso della scrittura, la letteratura orale imponeva all'espressione obblighi rigorosi e costringeva a impiegare certe formule ritmate, stereotipate e tradizionali, che veicolavano immagini e contenuti mentali indipendenti dalla volontà dell'autore, se cosi si può dire, questo fenomeno non è estraneo neanche alla letteratura scritta, nella misura in cui si deve curare del ritmo e della sonorità. Per menzionare un caso estremo, ma molto rivelatore, nel De rerum natura ‑ a causa del ritmo poetico che gli impone di ricorrere a certe formule in qualche modo stereotipate ‑ Lucrezio non può utilizzare liberamente il vocabolario tecnico dell'epicureismo di cui si dovrebbe avvalere.
Questo legame del testo scritto con la parola orale spiega dunque certi aspetti delle opere dell'antichità. Molto spesso l'opera si sviluppa per associazione d'idee, senza rigore sistematico; lascia che permangano le riprese, le esitazioni, le ripetizioni del discorso parlato. Oppure, dopo una rilettura, vi si introduce una sistematizzazione un poco forzata, aggiungendo transizioni, introduzioni o conclusioni alle diverse parti.
Piú di tutte le altre, le opere filosofiche sono legate all'oralità, poiché la stessa filosofia antica è, anzitutto, orale. Certamente accade che ci si converta leggendo un libro, ma allora ci si precipita dal filosofo, per ascoltare la sua parola, per interrogarlo, per discutere con lui e con altri discepoli, in una comunità che è sempre un luogo di discussione. In rapporto all'insegnamento filosofico, la scrittura non è che un espediente per aiutare la memoria, un ripiego che non riuscirà mai a sostituire la parola viva.
La vera formazione è sempre orale, poiché solo la parola orale permette il dialogo, ossia la possibilità per il discepolo di scoprire egli stesso la verità nello scambio delle domande e delle risposte, e anche la possibilità per il maestro di adattare il suo insegnamento ai bisogni del discepolo. Numerosi filosofi, e non dei minori, non hanno voluto scrivere, poiché ritenevano ‑ sulla scorta di Platone e probabilmente con ragione ‑ che ciò che la parola viva scrive nelle anime sia piú reale e piú durevole dei caratteri tracciati sul papiro o sulla pergamena.
Le produzioni letterarie dei filosofi saranno dunque, nella massima parte, una preparazione o un prolungamento o un'eco del loro insegnamento orale, e saranno segnate dalle limitazioni e dalle costrizioni che tale situazione impone.
D'altronde alcune di queste produzioni si riferiscono direttamente all'attività didattica. Infatti sono dei pro‑memoria redatti dal maestro per preparare il suo corso, o appunti presi dagli allievi durante il corso, o testi redatti con cura, ma destinati a essere letti nel corso dal professore o da un allievo. In tutti questi casi, il movimento generale del pensiero, il suo svolgimento, quello che si potrebbe chiamare il tempo suo proprio, è regolato dal tempo della parola orale. è una coazione molto pesante, di cui avverto, oggi, tutta la durezza.
Persino le opere scritte per se stesse sono strettamente legate all'attività dell'insegnamento, e il loro genere letterario rispecchia i metodi scolastici. Uno degli esercizi in uso nelle scuole consisteva nel discutere, o dialetticamente ‑ ossia con domande e risposte ‑, oppure retoricamente ‑ e cioè con un discorso continuo ‑, quelle che erano chiamate «tesi», vale a dire posizioni teoriche presentate sotto forma di domande: la morte è un male? Il saggio s'incollerisce? Era insieme un'educazione al padroneggiamento della parola, e un esercizio propriamente filosofico. La maggioranza delle opere filosofiche dell'antichità, per esempio quelle di Cicerone, di Plutarco, di Seneca, di Plotino, e in generale quelle che i moderni collegano al genere della «diatriba», corrispondono a tale esercizio. Discutono di una questione precisa, posta all'inizio dell'opera, a cui si dovrebbe normalmente rispondere sí o no. In queste opere il procedimento del pensiero consiste dunque nel risalire ai principi generali ammessi nella scuola, che sono in grado di risolvere il problema in questione. è una ricerca dei principi di soluzione di un problema dato, che dunque racchiude il pensiero entro limiti strettamente definiti. In uno stesso autore, i diversi scritti che seguono questo metodo «zetetico», questo metodo «che ricerca», non saranno necessariamente coerenti in tutti i punti, poiché in ogni opera i dettagli dell'argomentazione saranno in funzione della questione posta.
Un altro esercizio scolastico era la lettura e l'esegesi dei testi che costituivano autorità in ogni scuola. Molte opere letterarie, specialmente i lunghi commenti della fine dell'età antica sono il risultato di tale esercizio. In maniera piú generale, una parte notevole delle opere filosofiche di quel tempo impiegano un modo di pensare esegetico. Discutere una «tesi» il piú delle volte non consiste nel discutere della cosa stessa, del problema in sé, ma del senso che occorre dare alle formule di Platone o di Aristotele che si riferiscono a questo problema. Una volta ammessa tale convenzione, di fatto si discute della sostanza della questione, ma attribuendo abilmente alle formule platoniche o aristoteliche il senso che autorizza la soluzione del problema in questione che si voleva precisamente dare. Ogni senso possibile è vero purché sia coerente con la verità che si crede di scoprire nel testo. è cosí che si è creata a poco a poco, nella tradizione spirituale di ogni scuola, ma soprattutto nel platonismo, una scolastica che, poggiando sull'argomento d'autorità, ha edificato, con una straordinaria riflessione razionale sui dogmi fondamentali, edifici dottrinali giganteschi. è precisamente il terzo genere letterario filosofico, quello dei trattati sistematici, che propongono un ordinamento razionale dell'insieme della dottrina, presentata talvolta ‑ per esempio da Proclo ‑ «more geometrico», secondo il modello degli Elementi di Euclide. Questa volta non si risale piú a principi di soluzione per una questione precisa, ma si pongono subito e in primo luogo i principi, e se ne deducono le conseguenze. Questi scritti sono «più scritti» degli altri, si potrebbe dire; spesso comportano una lunga serie di libri, e un vasto piano d'insieme. Ma queste opere, come le Summe teologiche del Medioevo che annunciano, devono essere parimenti intese nella prospettiva degli esercizi scolastici, dialettici ed esegetici.
Tutte queste produzioni filosofiche,.persino le opere sistematiche, non si rivolgono, diversamente dalle opere moderne, a tutti gli uomini, a un pubblico universale, ma in primo luogo al gruppo formato dai membri della scuola, e spesso sono l'eco dei problemi sollevati dall'insegnamento orale. Solo le opere di propaganda si indirizzano a un vasto pubblico.
D'altronde accade spesso che il filosofo, scrivendo, prolunghi l'attività di guida spirituale che esercita nella sua scuola. Allora l'opera si rivolge a un discepolo determinato che occorre esortare o che si trova in una particolare difficoltà. O ancora l'opera è adattata al livello spi rituale e mentale dei destinatari. Ai principianti non si espongono tutti i dettagli del sistema, che si possono svelare solo ai «progredienti». Soprattutto l'opera, anche se evidentemente teorica e sistematica, è scritta non tanto per informare il lettore in merito a un contenuto dottrinale, quanto piuttosto per formarlo, facendogli percorrere un certo itinerario nel corso del quale progredirà spiritualmente. Questo procedimento è evidente in Plotino e in Agostino. Tutte le digressioni, le riprese, i détours dell'opera sono allora elementi di formazione. Quando si affronta un'opera filosofica dell'antichità si deve sempre pensare all'idea del progresso spirituale. Per i platonici, ad esempio, anche la matematica serve a esercitare l'anima a elevarsi dal sensibile all'intelligibile. Il piano di un'opera, la forma della sua esposizione possono sempre corrispondere a tali preoccupazioni.
Tali sono dunque le coazioni multiple che si esercitano sull'autore antico, e che fanno sí che il lettore moderno sia spesso sviato da ciò che dice e dalla maniera in cui lo dice. Comprendere un'opera dell'antichità equivale a ricollocarla nel gruppo da cui emana, nella sua tradizione dogmatica, nel suo genere letterario e nella sua finalità. Occorre cercare di distinguere ciò che l'autore era obbligato a dire, ciò che ha potuto o non ha potuto dire, e soprattutto ciò che ha voluto dire. Poiché l'arte dell'autore antico consiste nell'utilizzare abilmente, per raggiungere i propri scopi, tutte le costrizioni che pesano su di lui, e i modelli forniti dalla tradizione. D'altronde per lo piú quello che egli utilizza cosí non è solo costituito da idee, immagini, schemi d'argomentazione, ma anche da testi o almeno da formule già esistenti. Si va dal plagio puro e semplice alla citazione o alla parafrasi, attraverso l'utilizzazione letterale di formule o di parole impiegate dalla tradizione precedente, e a cui l'autore conferisce spesso un senso nuovo adattato a quello che vuol dire e quest'ultimo è il caso piú caratteristico. è cosí che Filone di Alessandria impiega le formule platoniche per commentare la Bibbia, o che il cristiano Ambrogio traduce il testo di Filone per presentare dottrine cristiane, che Plotino si avvale di parole e di frasi di Platone per esprimere la sua esperienza. Ciò che anzitutto conta è il prestigio della formula antica e tradizionale, e non il senso esatto che aveva originariamente. Ci si interessa meno dell'idea in se stessa, che degli elementi prefabbricati in cui si crede di riconoscere il proprio pensiero e che acquistano un senso e una finalità inattesi con la loro integrazione nell'organismo letterario. Questa riutilizzazione, talvolta geniale, del prefabbricato, dà un'impressione di bricolage, per riprendere un termine oggi di moda, non solo tra gli antropologi ma anche tra i biologi. Il pensiero evolve riprendendo elementi prefabbricati e preesistenti a cui conferisce un senso nuovo, nel suo sforzo di integrarli in un sistema razionale. Non si sa che cosa sia piú straordinario, in questo processo d'integrazione: se la contingenza, il caso, l'irrazionalità, la stessa assurdità che derivano dagli elementi utilizzati, o al contrario lo strano potere espresso dalla ragione per integrare, sistematizzare tali elementi disparati, e conferire loro un senso nuovo.